Tuesday 1 September 2015

INCIPIT

    Sin da quando ero bambino ho sempre voluto fare l’artista. Un artista indossa una giacca di velluto a coste, si lascia crescere i capelli e passa le sue giornate accovacciato contro le pareti di una stazione di polizia. Le pareti della stazione di polizia di Lijiakou erano costruite in mattoni a vista, di colore grigio scuro, e mio zio stava spesso accovacciato contro di esse, soffiando aria nelle proprie guance finché non sbuffavano. Oltre alle guance, a volte anche la sua giacca di velluto prendeva a gonfiarsi ed a sbuffare con un suono simile a quello dei vecchi battelli del Fiume Giallo. Per questo motivo, egli spesso appariva più robusto di quanto non fosse realmente. Da allora quell’immagine mi ha lasciato con l’impressione che gli artisti siano un po’ come dei sacchi, che ogni tanto prendono a gonfiarsi senza preavviso. L’unica differenza tra gli uni e gli altri è che se mentre cammini rimani impigliato in un sacco e vuoi liberartene, per farlo devi compiere uno sforzo, aiutandoti magari con le mani; se invece inciampi in un artista è sufficiente che tu gli dia un calcio e questi si toglierà di torno da solo. Come lo ricordo io, appoggiata alla base di un piano verticale grigio e lucente (che sarebbe la parete) c’era una palla marrone (marrone era il colore della giacca di velluto) – quello era esattamente mio zio.
    Non era difficile individuarlo all’interno della stazione di polizia. Di solito stava in cortile, che consisteva di uno spazio vuoto circondato da una parete di mattoni di colore grigio lucente, illuminato di notte da una luce rossa appesa sopra all’unica porta d’accesso. Quando gli agenti mi vedevano arrivare, gridavano, «Oh, è tornato il nipote del grande pittore!» Io mi sentivo subito a casa. A mezzogiorno cucinavano spaghetti di riso nella reception, vicino all’ingresso. Il profumo mi metteva ancor più a mio agio.
    Se lo zio non era al suo solito posto sapevo che doveva trovarsi in un caffè poco lontano, il “Terra Madre”. Nel caffè non c’era l’elettricità e l’interno era quasi completamente buio, non fosse per una manciata di candele che diffondevano nell’aria un asfissiante odore di paraffina. Osservando le persone sedute ai tavoli riuscivi a vedere soltanto la parte inferiore delle loro facce, il cui colore era quello tipico dei maiali allo spiedo. Mio zio trattava spesso di affari con gli avventori del locale, e di conseguenza veniva spesso arrestato con l’accusa di vendere quadri senza permesso. Commetteva questo tipo di errore in continuazione in quanto era un pittore, pur non avendo la licenza per svolgere il mestiere. Quando lo mettevano dentro qualcuno doveva pagare la cauzione per farlo uscire. Di solito quella persona ero io.
    Il quartiere che sorgeva accanto alla stazione di polizia era stato costruito negli anni cinquanta. Gli edifici avevano tetti spioventi ed erano occupati quasi esclusivamente da attività manifatturiere e negozi. Ai margini della strada principale c’erano due file di alberi di gingko, sotto le cui fronde gli abitanti montavano dei bracieri dove venivano grigliati pezzi di agnello. Le foglie ingiallite dal calore regalavano al quartiere una piacevole atmosfera autunnale durante l’intero corso dell’anno. Purtroppo gli alberi morirono tutti in breve tempo.
    Mio zio abitava in un piccolo appartamento a poca distanza. L’edificio era molto alto, la facciata squadrata e piuttosto brutta, i corridoi costantemente cosparsi di pattume. Quando andavi a trovarlo, il più delle volte te ne andavi pensando che non fosse in casa, anche se spesso c’era.
    Mio zio era un pittore senza licenza come tanti. A renderlo diverso da tutti gli altri era l’estrema dedizione verso il proprio mestiere. Passava la totalità delle sue giornate se non a dipingere, a tentare di vendere i suoi dipinti. Per via di quest’ultima attività, a volte passava anche qualche ora accovacciato contro le pareti della stazione di polizia.

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